mercoledì 24 dicembre 2014

Fuori luogo nel PD?

     
      Una strana giornata.
      Venerdì scorso ho partecipato a 2 dibattiti: la mattina a Torino con l’Anaao (il sindacato dei medici, per intenderci), il pomeriggio a Roma con il PD (il mio partito, per intenderci). A Torino si parlava di come cambiano i “Luoghi della salute”. Non è la mia materia specifica ma, da sindaco, ho preso parte (complice convinto) alla chiusura di un paio di ospedali e all’apertura di quello nuovo di Ferrara-Cona. E avevo qualcosa da dire di preciso sulla necessità di riorganizzare il sistema ospedaliero italiano (ovunque) per garantire standard accettabili sia per l’assistenza sociale, che per le cure primarie e le acuzie. Penso di essermela cavata benino e debbo dire che mi sono sentito molto ben accolto. Malgrado l’aver detto dal palco (a scanso di equivoci) “sono un sindacalista della Cgil nazionale”, sono stati tutti molto gentili e, mi è parso, interessati.
     Il pomeriggio, in un bel teatro romano in centro (Teatro de’ Servi) mi avevano invitato a parlare del “futuro prossimo dell’Europa” assieme al Presidente Zingaretti, a Fabrizio Barca del Mef e al deputato europeo PD Roberto Gualtieri. Nemmeno questa è esattamente la mia materia, anche se da cittadino e da sindacalista mi sono fatto qualche opinione in proposito. Per prepararmi ho parlato a lungo con Fausto Durante, il responsabile del “Segretariato Europa” della Cgil che frequenta più Bruxelles di Roma. Ho discusso con lui dei limiti della politica economica europea, di quelli di funzionamento dell’Unione, dei difetti di democrazia esistenti, di quello che bisognerebbe fare per un’Europa migliore e  più condivisa dai suoi cittadini. Ma mi sono trovato in un ambiente completamente distonico.
    Il Presidente Zingaretti ha descritto le cose importanti che ha fatto e sta facendo la Regione Lazio sotto la sua presidenza malgrado le difficoltà passate e presenti. Lo ha fatto in modo così convincente che io, da emiliano, con un neo presidente di regione eletto dalla minoranza dei cittadini, mi sono sentito un po’ a disagio: come se venissi da una Regione ferma e arretrata rispetto a quanto si sta facendo nel Lazio.
    Zingaretti (da ex parlamentare europeo) ha poi spiegato cosa è necessario fare e innovare in Europa, tenendo insieme, mi è parso di capire, innovazione delle politiche e modifica dei trattati.
    Dopo di lui è toccato a me. Avevo un lungo elenco delle cose che non vanno in Europa e che la allontanano dai cittadini ma ho preferito non esporlo se non dicendo che la politica economica europea è sbagliata, che persino gli Usa ci accusano di essere troppo attenti ai conti pubblici e di ostacolare la ripresa economica e la creazione di posti di lavoro. Credo di essere stato l’unico della serata a usare la parola “lavoro”. Tutti gli altri hanno spiegato che il semestre italiano ha ormai cambiato la politica europea grazie all’azione di Renzi e al successo elettorale del PD da lui guidato. L’eurodeputato PD Gualtieri ha persino spiegato che ormai il “fiscal compact in Europa non esiste più ed è stato sostituito dal criterio della flessibilità” grazie all’azione del PD.
    Io non credevo alle mie orecchie e mi sentivo sempre più a disagio: sempre più ospite a casa d’altri piuttosto che non partecipante a un dibattito del mio partito.
    Ho continuato dicendo che le arretratezze italiane (i bisogni veri di innovazione, dal territorio, all’energia, dall’antisismica al ciclo dei rifiuti, dal trasporto pubblico locale alla riforma vera della pubblica amministrazione, dalla scuola alla sicurezza) non le risolverà l’Europa senza un indirizzo e degli investimenti mirati del Governo italiano. Credo di essere stato l’unico anche a ricordare che se si precarizza il lavoro non ripartono gli investimenti e non aumenta la qualità della produzione.
    Solo Fabrizio Barca, più per senso di ospitalità che per convinzione, mi è parso, ha cercato di tenere insieme i due punti di vista presenti (quello trionfalistico di tutti e il mio più critico) sostenendo che l’azione politica del PD può cambiare le politiche europee se tutto il PD sosterrà l’azione innovatrice del nostro Governo. Io non credo nemmeno a questo ma ho evitato di dirlo. Sempre più mi sono sentito come un ospite che non può dire, in casa d’altri, che il cibo servito era molto elaborato solo per mascherare i piatti di sempre. E mi è venuto in mente quando gli operai alla mensa della Montedison dicevano per scherzo “Pesce veloce del Baltico in salsa di mais”, per dire “Baccalà con polenta”.
    Quando l’eurodeputato Gualtieri ha richiamato, nell’entusiasmo di quanto stanno facendo per il progresso i vari organi comunitari, il fatto che esiste una frattura tra istituzioni comunitarie e cittadini europei, sono stato a un passo da interromperlo dalla sala  per dire che quando c’è una frattura tra istituzioni e cittadini le possibilità sono sempre e solo due, in Europa e in Italia: o i cittadini non conoscono ciò che le istituzioni fanno o i cittadini pensano che le istituzioni raccontano frottole… In ogni caso non si può dare la responsabilità della frattura ai cittadini.
   Non l’ho interrotto dalla sala perché gli ospiti debbono attenersi almeno alle regole (europee) di bon ton.
   Una strana giornata: a proprio agio in casa d’altri il mattino, a disagio a casa propria il pomeriggio. Ma tant'è: è Natale e conviene essere buoni.

   

sabato 13 dicembre 2014

@matteorenzi finge di non sapere come nasce la corruzione (da ex sindaco dovrebbe)

Il Presidente Renzi dovrebbe sapere che la corruzione diffusa non è un virus ma l'effetto febbrile di una malattia genetica, diffusa in tutto il Paese. Questa malattia deriva dai meccanismi che regolano la rendita urbana, gli appalti pubblici, le concessioni.

A piccola testimonianza accludo un vecchio "racconto".


Da "Mente Locale", Bompiani 2011:


19. Il lungo assedio

Dieci anni da sindaco. Un periodo lungo quanto la guerra di Troia: solo a pensarlo mi vengono i brividi. Tante cose accadono. Molti personaggi compaiono in scena, si conoscono nuovi amici e se ne perdono, si trovano inattesi compagni di strada, alcuni vecchi protagonisti ci lasciano per sempre. E il sindaco è sempre lì, dall’inizio alla fine: non muove guerra a nessuno, cerca solo di difendere la città dagli attacchi continui. Alcune sono scaramucce di avventurieri, altri sono tentativi seri di espugnare la rocca municipale. Le minacce non vengono dalla politica e non si tratta di stranieri che invadono il territorio. Per me la costante decennale è stato l’assedio (più o meno cruento) da parte degli imprenditori edili locali. Un lungo e reiterato tentativo di costruire, costruire, costruire ovunque: villette, palazzine, condomini, capannoni, cliniche, alberghi, centri commerciali. Indipendentemente dal piano regolatore che decide la destinazione delle aree urbane. Così li aveva abituati il mio predecessore.
Questa fame di territorio da parte dei costruttori non nasce all’improvviso o per caso. In parte è patologica, diffusa su tutto il territorio nazionale, in parte è alimentata (in molte zone del territorio nazionale) dall’assenza di strumenti di pianificazione urbanistica e di controllo. Se in questo Paese la corruzione e l’illegalità sono diffusi e ormai endemici, ciò è dovuto soprattutto alla pressione dell’industria delle costruzioni. Questa è la mia ipotesi e la mia esperienza. Non solo per l’assenza di scrupoli dei singoli costruttori, ma per altri due motivi validi da troppo tempo in Italia. Il primo è il meccanismo della rendita fondiaria, costruito e alimentato dal dopoguerra a oggi, che genera un utile spropositato in rapporto ad altri settori industriali. Il secondo motivo, derivato da questo, sta nel fatto che i risparmi investiti in abitazioni sono stati e restano i più sicuri in valore e affidabilità degli ultimi sessant’anni. Costruttori e proprietari trovano nella casa il massimo rendimento possibile dei propri investimenti e risparmi.
Ci sono migliaia di pagine che descrivono questo fenomeno, a partire dai “sacchi” urbanistici degli anni ’60, ma tutto è rimasto com’era, anzi, si è amplificato e alimentato in ogni circostanza della vita del paese: dai terremoti agli anni santi, all’Expo, dalle Olimpiadi ai mondiali di nuoto, al mancato G8 della Maddalena. La casa in proprietà è stato il perno del welfare state democristiano costruito nel dopoguerra. In questo, la nostra tanto bistrattata classe dirigente è stata molto più lungimirante e saggia di quella americana. L’industria edile è stata necessariamente sovralimentata e in un certo senso assistita. Il credito è stato garantito a chi voleva costruirsi o comprarsi una casa. Le Casse di risparmio locali hanno concesso con larghezza mutui garantiti dagli immobili stessi. Anche la recente abolizione dell'Ici è stato un segnale per favorire la proprietà delle case e quindi la loro produzione.
Senza Ici, una delle principali entrate dei Comuni è data dagli “oneri di urbanizzazione” una sorta di tassa pagata dai costruttori sulla base dei volumi realizzati. Man mano che le altre entrate locali sono state tagliate o impedite, gli oneri di urbanizzazione hanno rappresentato un gettito ancor più importante che viene utilizzato per le spese normali e non per l’urbanizzazione delle aree. Anche la fame di risorse dei Comuni ha favorito l’espansione edilizia e il consumo del territorio a mezzo del mattone e del cemento.
Non vorrei esagerare, da amministratore ho subito attacchi provenienti anche da altri settori economici oltre a quello delle costruzioni, ma al confronto erano scaramucce. I commercianti del centro, ad esempio, mi hanno consegnato un paio di volte le chiavi (false) dei loro negozi per protesta. Perché volevano le “distese di tavoli” gratis fuori dai bar e dai ristoranti; chiedevano che il Comune vietasse l’apertura di nuovi esercizi commerciali per decreto; pretendevano che le auto potessero circolare e parcheggiare ovunque, specie le loro. I commercianti ambulanti poi, si erano immaginati di poter aprire le bancarelle in qualsiasi giorno in qualsiasi piazza del centro storico patrimonio Unesco, come è stato loro permesso a Firenze o a Venezia. Ma i commercianrti non sono un esercito in grado di muovere offensive durature. Sono troppo divisi fra piccola distribuzione fissa, grande distribuzione, ambulanti, esercizi del centro e della periferia, per essere in grado di condizionare davvero le politiche locali.
Nella mia città, complice anche il relativo sottosviluppo dei primi decenni del dopoguerra, l’espansione edilizia è stata contenuta da un buon governo del territorio fino agli anni ’90: protezione del centro storico, inedificabilità di alcune aree di pregio, persino la creazione di un “parco urbano” di centinaia di ettari alle porte della città verso il fiume Po (dove anticamente erano le riserve di caccia dei duchi) che abbiamo poi dedicato a Giorgio Bassani. Qualche intervento discutibile dei primi anni ’60: alcuni palazzi costruiti in mezzo alla strada, il “grattacielo” a due torri vicino alla stazione, dovuti più a limiti culturali delle amministrazioni e della politica di allora che non a tentativi speculativi dei privati (o forse le due cose insieme). Insomma, nella norma se non al di sotto: molto meno di quanto si è costruito e mal costruito in quegli anni nel resto d’Italia, anche in Emilia.
Alla fine degli anni ’80 l’equilibrio si rompe: c’è più reddito, più disponibilità a investire sia nella produzione di case sia nel loro acquisto, c’è anche l’esigenza di migliorare le condizioni medie di abitabilità. C’è soprattutto la Cooperativa Costruttori che alimenta la pressione a costruire: all’interno delle regole o in deroga al Piano regolatore vigente. Dall’altra parte, il sistema politico e amministrativo è disponibile ad accettare queste sollecitazioni esterne. Anche in buona fede: accogliere le richieste dei costruttori significa sostenere l’industria locale, l’occupazione e l’economia del territorio.
...
 

martedì 9 dicembre 2014

L'italia di oggi come la Russia di Gogol: piena di "anime morte"

"Sei anni trafficarono intorno a quell'edificio: ma, fosse il clima, che dava fastidio, o il materiale, che non era adatto, fatto sta che l'edificio governativo non andò oltre le fondamenta. E nel frattempo, all'altro capo della città, apparve per ciascuno dei membri [della commissione edilizia] una casa in bello stile architettonico: evidentemente il suolo là era migliore."

mercoledì 3 dicembre 2014

Un film da non perdere

     Ieri ho potuto vedere il film “MENO MALE E’ LUNEDI’”, di Filippo Vendemmiati, sull’esperienza di lavoro presso le carceri Dozza di Bologna. E’ un film molto bello, anche sul piano artistico ed espressivo. Non sono un esperto ma da spettatore ho apprezzato il senso della misura con cui viene rappresentato un luogo “oppressivo” come il carcere; la scelta delle musiche che fanno pensare più alla pace e all'isolamento dei conventi che alla mancanza di libertà di una prigione; la spontaneità dei dialoghi e degli interpreti che testimoniano la tristezza, la sofferenza ma anche le speranze legate a quella nuova esperienza di lavoro che si sta svolgendo al di là del lugubre corridoio sotterraneo che dal carcere porta all’officina. Da un lato la segregazione dove il tempo è senza dimensione, le ore e i giorni sempre uguali, dall'altra il lavoro, le sue regole, l'attenzione e la puntualità che richiede.
Soprattutto il film non racconta, mette in scena: i protagonisti di quell'esperienza nella loro quotidianità fanno capire sia il loro triste passato che la luce aperta dall'attività che stanno svolgendo. 
Rispetto ad altre esperienze di lavoro in carcere (troppo poche, per la verità), quella di Bologna si distingue perché si tratta di un lavoro qualificato (che prevede addestramento e controllo continui) e pagato in maniera regolare con un contratto. Non è decentramento di mansioni povere, sono commesse affidate a una società che si costituisce appositamente per produrre particolari, montare e collaudare macchine automatiche: non si può sbagliare, non si può tirare via. Se si sbaglia si smonta e si ricomincia fino a raggiungere la perfezione micrometrica necessaria.
Accanto ai carcerati che intraprendono questa esperienza come se stessero uscendo dalla loro condizione di detenuti, l'altro protagonista di grande rilievo del film sono i tutor: operai specializzati in pensione che preferiscono alzarsi presto e andare ad insegnare il loro lavoro in carcere piuttosto che "andare al bar a prendere un caffè con gli amici".
"Meno male è lunedì" trasmette a chi lo vede molti messaggi forti sulla fragilità della vita delle persone, sul senso di umanità che esiste al di là di qualsiasi differenza sociale e di status. 
I messaggi più potenti sono quelli relativi al valore del lavoro. Alla capacità del lavoro, se ricco di competenze, di mutare le condizioni di esistenza delle persone, il loro atteggiamento nei confronti di se stessi e degli altri. E alla necessità di trasferire le competenze del lavoro tra le generazioni e le persone, perché non sono fredde conoscenze tecniche ma capacità organizzative e relazionali. Il saper fare insieme diviene regola e fine del vivere in comunità, si potrebbe dire.
Quando uno dei carcerati racconta che un tempo disprezzava il lavoro operaio perché lui in un minuto guadagnava dieci volte più di quelli che andavano a lavorare in fabbrica e che ora è fiero di quello che ha appreso e che sa fare, spiega più di molte fumose sociologie sul superamento del concetto di lavoro. Quando uno dei tutor dice: "se dovessi incontrarli per strada li porterei a pranzo in trattoria" spiega che una barriera si è già rotta: che il reinserimento sociale è avvenuto prima che quelle persone escano dal carcere.
Il film "Meno male è lunedì" è da non perdere, l'esperienza della Dozza sarebbe da replicare.


  

mercoledì 26 novembre 2014

Volontari e giovani ai Fori romani: una iniziativa bellissima da replicare

Ieri mattina, invitato da Anna Ansaloni Ravenna, ho partecipato a una visita guidata ai Fori romani. La parte di competenza del Comune di Roma, per l'esattezza. Quella che non si visita mai e che sta tra il carcere Mamertino, la Curia senatoria e le pendici della Suburra.
La bellezza e la storia dei luoghi sono affascinanti (anche per noi) per come espropriavano, indennizzavano e radevano al suolo le case del popolo romano per costruire un nuovo Foro (a partire da Cesare, "il dittatore democratico" per usare la definizione di Luciano Canfora). Era una moda ellenistica? Forse. Sta di fatto che l'intrico di vicoli del centro di Roma lasciava il posto ad ampi spazi pubblici, ornati di templi, statue e, nel caso del "Foro della Pace", una biblioteca, piante officinali e botteghe per cure mediche (pare pagate dallo Stato per volontà di Vespasiano). Anche Cicerone ha perso la casa e ricevuto un indennizzo da Cesare che (geniale perfidia) aveva incaricato proprio lui di convincere i vicini di casa dell'utilità pubblica di costruire il Foro di Cesare (primo fra tutti). 

  Il Foro di cesare

Ma l'iniziativa è interessantissima anche per come è nata. Il "Fai" scuola, di Roma, di cui Anna è responsabile, ha avuto l'idea di organizzare visite delle scuole in cui alcuni studenti che si sono preparati fanno da guida ai loro compagni, altri fanno da "aprigruppo e chiudigruppo" altri stanno di rincalzo se c'è bisogno. Sorpresa delle sorprese, i ragazzi ascoltano in silenzio e si muovono in ordine come fossero turisti giapponesi...
Il tutto con la supervisione di archeologhe del Comune e l'assistenza di volontari della protezione civile che aiutano a ordinare il flusso di decine di classi delle superiori.


Con i ragazzi abbiamo visitato anche il Foro di Nerva con il bellissimo pseudoportico con statue e fregio.



E il Foro di Augusto, ai confini della Suburra e dei Mercati Traianei


A me pare che l'idea sia ottima per diversi motivi.
Intanto perché studiare la storia e la storia dell'arte esclusivamente sui libri a Roma (e in quasi tutte le città italiane) è un'assurdità didattica e culturale insieme. Si continua a insegnare una storia dell'arte imbalsamata a chi la può vivere dal vero... con le sovrapposizioni che l'arricchiscono. Come questa casa medievale signorile che sta ancora nel Foro di Cesare.


E poi perché insegnare ai ragazzi il metodo con cui si spiegano le cose ai propri compagni è il miglior modo di farle apprendere. Infine perché d'estate quei ragazzi potrebbero ben impiegare il loro sapere per svolgere un'attività utile alla loro città: quella della guida turistica (magari per comitive di giovani).
Quindi davvero complimenti ad Anna e alle sue colleghe per l'idea e il lavoro organizzativo.
Se si replicasse l'esperienza nelle altre città italiane daremmo un nuovo senso all'insegnamento della storia dell'arte e diffonderemmo la cultura del patrimonio storico e della sua tutela.
Bisognerebbe parlarne al Ministro Franceschini.

lunedì 24 novembre 2014

Pd(R): le chiacchiere stanno a zero

Mettiamo le cose in fila, senza far prevalere i giudizi e senza trarne tutte le conseguenze politiche. Solo per amore di verità, limitandoci ad osservare le situazioni certe.

Renzi è Segretario del Pd per aver vinto le primarie. Ma è diventato Presidente del Consiglio senza passare per nessun voto popolare.
Da segratario Pd ha restaurato il "centralismo democratico" e relegato il dibattito interno al suo partito a mera testimonianza del dissenso. La discussione nel Pd non serve a definire le scelte politiche del Partito ma a contare i favorevoli e i contrari alle decisioni del Segretario, per poi richiedere comportamenti parlamentari coerenti.

 Per amore di oggettività bisogna ricordare che si tratta dello stesso gruppo dirigente Pd che aveva impedito a Bersani di proporre una credibile candidatura alla Presidenza della Repubblica. (Per cui verrebbe di dire che se lo meritano il "centralismo poco democratico", ma questa è solo un'opinione).

Come Presidente del Consiglio Renzi ha avviato il superamento della seconda camera (il Senato) senza modifica costituzionale e ha ridotto il Parlamento a un luogo di ratifica (sulla fiducia) dei suoi provvedimenti legislativi (spesso generici e affidati a decretazione successiva). Il dibattito parlamentare non serve a definire le leggi ma a contare i favorevoli e i contrari alle proposte di legge del Governo.

In sintesi: un Segretario trasforma un partito popolare in un partito personale, un Presidente del Consiglio comprime uno dei tre poteri fondamentali della democrazia (quello legislativo) a strumento dell'esecutivo. Le due cose, separatamente, sarebbero gravi. Il fatto che siano compiute dalla stessa persona dovrebbe essere motivo quantomeno di ulteriore allarme.

Per amore di oggettività bisognerebbe anche qui ricordare che si tratta di un Parlamento eletto sulla base di una legge incostituzionale (come sancito dalla Cassazione) e tenuto in vita dalla decisione del Presidente della Repubblica di non scioglierlo e indire nuove elezioni.
Sempre per amore di oggettività si deve aggiungere che responsabili di questo scempio sono i dirigenti del Pd prima di Renzi che hanno preferito "tentare" la sorte elettorale con la vecchia legge "Porcellum" invece che imboccare la strada della riforma. Ma questa responsabilità non può essere considerata un'attenuante per il modo con cui Renzi guida Parlamento e Governo: anzi. Alla fin fine si tratta di due poteri che operano pur non essendo validati da un voto legittimo.
In altri tempi la sinistra si sarebbe mobilitata contro questa occupazione non autorizzata delle istituzioni. Se questo percorso di presa del potere lo avesse attuato il capo di Forza Italia la sinistra avrebbe certamente mobilitato il popolo a difesa delle istituzioni repubblicane.

Sinceramente non so in quanti Paesi dell'Unione Europea ci sia una situazione democratico istituzionale paragonabile alla nostra.
Si potrebbe dire che (senza modifica costituzionale) siamo ormai in presenza di due sistemi presidenziali (non uno solo). Il primo è il "tutoraggio" quotidiano che il Presidente della Repubblica svolge nei confronti del Parlamento, del Governo, e del Presidente del Consiglio, il secondo presidenzialismo è quello che il Presidente del Consiglio svolge nei confronti del Parlamento. Un doppio presidenzialismo non esiste in nessuna democrazia occidentale.
Ricordiamoci solo del fatto che la Regina Elisabetta, nella "madre" di tutte le democrazie, quando accede al Parlamento inglese è tenuta simbolicamente a bussare alla porta per farsi aprire...

Per tornare alle nostre "stalle", bisogna poi ricordare che da domenica, il presidenzialismo regionale in Emilia Romagna funziona sulla base di un voto di minoranza: una minoranza dei cittadini ha votato, la maggioranza relativa di quella minoranza (non certo il 51%) ha eletto il Presidente. Credo sia la prima volta da quando esiste il voto diretto alle regionali (e la chiamano "una vittoria netta"...).

Per completare questo quadro non esaltante bisognerebbe dire che questi malesseri della democrazia italiana, visti da una scala sovranazionale, sono variabili quasi irrilevanti rispetto alle politiche che il Paese assume. La forma del Governo, la forma del l'attività parlamentare (e a cascata delle altre istituzioni) non contano quasi nulla di fronte alle scelte polithce che vengono prese in Europa e dall'Europa imposte. Per concludere si dovrebbe poi precisare che le politiche europee non vengono prese dalle istituzioni europee ma dalla Bundesbank con il sostegno della Germania.
Così il quadro dell'impoverimento della democrazia nella crisi è completo.



sabato 22 novembre 2014

Un chiarimento necessario nel Pd emiliano


Nei giorni scorsi avevo rivolto qualche domanda ai candidati ferraresi Pd al Consiglio regionale, per capire se sul rapporto tra Partiti, Istituzioni, corpi intermedi, il Pd emiliano romagnolo sia su posizioni diverse da quello nazionale e, in conseguenza, decidere se votarlo o no. L’ho domandato a loro e non al candidato alla presidenza Bonaccini semplicemente perché non lo conosco . Lo dico a suo merito perché è segno che il Emilia il rinnovamento c’è stato davvero (magari a demerito di quelli che a governare ci sono rimasti venti anni, ma questo è altro discorso…). 
Paolo e Marcella mi hanno dato risposte interessanti (cui ho mosso qualche obiezione) e una disponibilità a parlarne in pubblico dopo le elezioni del 23.
Dopo il comizio finale di Renzi al Pala Dozza e l’attacco (politicamente e umanamente) volgare a Susanna Camusso e alla Cgil, penso che l’incontro con Paolo e Marcella sia ancora più utile e urgente, se ne avranno voglia e tempo. Non per difendere o rettificare le dichiarazioni di Renzi ma per capire che tipo di rapporto a Ferrara e in Emilia si potrà tenere tra sindacati e istituzioni al fine di avviare politiche economiche e sociali più efficaci e rispondenti alle emergenze (il lavoro prima di tutto) e ai bisogni delle comunità.
Ci sono sostanzialmente 3 modelli cui richiamarsi. Uno è quello emiliano classico: le decisioni spettano alle istituzioni ma prima, durante e dopo l’iter legislativo e decisionale ci si confronta a 360 gradi con la società, l’economia, e le altre istituzioni regionali per trarne suggerimenti e richiedere comportamenti coerenti. Chiamatela come volete, in genere si chiama concertazione, o programmazione negoaziata o dialogo sociale, nella sua forma più blanda. Tutti vengono consultati, nessuno ha diritto di veto sui provvedimenti, si possono generare ulteriori accordi specifici di applicazione o verifica attuativa. Questo modello ha il pregio di produrre maggiore consenso sociale sui provvedimenti istituzionali assunti e coinvolgere attivamente gli attori economici e sociali privati. Un secondo modello (non abituale in Emilia ma in gran voga a Roma) è quello che esclude consultazioni formali e pubbliche e ascolta quotidianamente i suggerimenti e le pressioni delle lobby. Può essere un sistema utile a rappresentare interessi particolari ma non produce convergenza e coesione, anzi. Il terzo modello (praticato dai partiti di massa fino agli anni ’70) prevede che la rappresentanza degli interessi sociali sia mediata dalla rappresentanza politica (la società ha voce solo attraverso i partiti e non fuori di essi), e che esistano organizzazioni sociali proprie dei partiti e non autonome (tant’è che ieri Giuliano Ferrara sollecitava Renzi a fondare un proprio sindacato). Ma per praticare questo modello ci vogliono partiti solidi, diffusi e radicati, non partiti leggeri o elettorali in cui il consenso è garantito dal leader nazionale o dal web.
In Pd nazionale pratica il modello delle lobby, anche se sembra occhieggiare il terzo. 
In Emilia che si intende fare?
Come è ovvio, il modello di relazioni che si sceglie non è neutrale rispetto alle politiche che si intendono adottare, e viceversa. Il programma sulla creazione di lavoro che Bonaccini ha pubblicato sul suo sito, in cui tutta la società emiliano-romagnola partecipa alla creazione e alla diffusione dell’innovazione e alla crescita si adatta solo al primo modello di relazioni: quello della concertazione. Ma questo è contrario alla propaganda e alla pratica del Pd renziano. Allora, cosa intende fare il Pd emiliano-romagnolo?


domenica 16 novembre 2014

Ferrara, la piena del Po del 2000: cosa è cambiato e cosa no


Alcuni amici mi chiedono come sia andata la storia della piena del Po del 2000 e di quell'idea assurda di far saltare il ponte ferroviario con la dinamite. Così ho pensato di postare sul blog il capitolo sulla piena del mio libro "Mente Locale". Buona lettura.

3 L’antico fiume

       La prima emergenza reale nella quale mi sono imbattuto, da sindaco ancora apprendista, è stata la piena del Po nell’ottobre 2000. Il Po, come di- cono i sussidiari, nasce dal Monviso e sfocia, dopo 652 chilometri, nel mare Adriatico. Non dicono che in origine era un fiume che scorreva a livello della campagna e della mia città, inondandola con le sue acque almeno una volta l’anno (come il Nilo) e che nei secoli, a forza di alzare argini per contenerlo, è diventato un fiume pensile, anche perché nessuno lo scava più. Non tracima tutte le volte che piove o quando si sciolgono le nevi delle Alpi, però quando esonda lo fa cadendo dall’alto, da molti metri sopra il livello della mia città. Sul Padimetro inciso su una colonna di marmo del palazzo municipale sono segnate tutte le piene storiche e solo a guardarlo si capisce che il livello medio dell’acqua si è alzato costantemente nei secoli.
Le onde di piena più pericolose avvengono con le piogge primaverili che si sommano allo sciogli- mento delle nevi in montagna, ma anche quelle autunnali non scherzano. I vecchi ancora parlano delle piene più brutte e della famosa rotta del 1951, quando l’acqua ha invaso la campagna veneta fino alle porte di Rovigo. Raccontano storie più o meno veritiere sulle ronde armate che vigilavano tutta la notte su entrambi gli argini, per evitare che qual- cuno con un barchino e dei picconi, attraversasse il fiume per aprire un varco nell’argine opposto e salvare la propria casa, la famiglia, le bestie a scapi- to di chi viveva dall’altra parte del fiume. Rompere quell’enorme massa di terra, più alta e larga delle mura cittadine, sembra difficile, ma quando l’onda della piena preme sulle sponde basterebbe scavare un piccolo fosso o allargare una delle tante infiltrazioni (i fontanazzi) che si creano da sole sotto l’argine e che sbucano nel terreno come polle qualche decina di metri più dietro, per far smottare tutto in poche ore.
Mio nonno raccontava anche dell’aspetto buono del fiume. Quando si andava a fare il bagno sulle spiagge di sabbia dorata e si passava una domenica sotto i salici piangenti, che secondo la mitologia sa- rebbero le sorelle di Fetonte affrante per la morte del fratello fulminato da Giove mentre sorvolava l’Eridano con il carro del sole. Ai tempi di mio nonno, si lanciavano le sfide tra i giovani più coraggiosi: a chi riusciva ad attraversare il fiume a nuoto. Allora si pescava lo storione e si trovava ancora il caviale del Po. Lui raccontava di quando d’estate, con il fiume in secca, si riusciva ad andare a piedi fino all’altra riva, perché il Po è in realtà un gigantesco torrente che a volte si svuota quasi del tutto. Poi tornava a parlare della faccia più traditrice del fiume, con le buche nascoste e i vortici e i tanti annegamenti. E di quando, nel gelido inverno del 1929, si riusciva ad attraversarlo per intero camminando sul ghiaccio.
Adesso nel Po non ci sono più gli storioni: le sabbie sono di colore grigio scuro, sporche di idro- carburi, e l’acqua per essere bevuta deve essere filtrata e depurata a lungo dalle aziende idriche municipali. Nessuno va più a farci il bagno e in oltre cinquanta anni non ho mai visto galleggiare un solo pezzo di ghiaccio. Il Po negli ultimi decenni è diventato un’enorme cloaca che scarica in mare i reflui di tutte le città della Pianura padana, a co- minciare da Milano che non aveva nemmeno un depuratore fino al 2000 (la Milano “da bere”...). Nel Po finiscono i residui degli allevamenti di ma- iali della Via Emilia, quelli delle industrie del Nor- dovest, e le sostanze chimiche di un’agricoltura troppo industrializzata. I più ottimisti dicono che negli ultimi anni c’è stato un qualche miglioramen- to della qualità dell’acqua ma non sono in grado di confermarlo. Dal volo Venezia-Roma, quando l’aereo passa sopra le foci del Po, si continua a vedere una striscia di acqua gialla che entra per decine di chilometri nell’azzurro del mare Adriatico.
In quei giorni dell’ottobre 2000 il Po era soprattutto una gigantesca e spaventosa quantità di acqua sporca che passava rumorosa e veloce sotto i ponti: producendo rapide e mulinelli attorno ai pilastri, allagando le golene e il sistema di argini plurimi co- struito negli anni, premendo sulle rive dove la gente stava seria a osservare. Non c’era più niente di bucolico sotto i pioppi e fra i salici immersi nell’ac- qua fino ai rami. Trascinati dalla corrente galleg- giavano carcasse di animali, alberi divelti e detriti vari: bidoni, bombole, frigoriferi. Ricordo lo sforzo epico delle centinaia di persone della Protezione civile, dell’esercito e delle squadre di volontari che rinforzavano le sponde con sacchi pieni di sabbia, preparavano programmi di sgombero rapido e allestivano sedi di ricovero per eventuali sfollati nelle palestre e nelle scuole. L’attivismo frenetico dei soccorsi e la prudente rassegnazione degli anziani che stavano per ore, con i piedi vicino all’acqua e le braccia lungo i fianchi, a guardare se il livello del fiume cresceva ancora o se si era fermato.
In realtà di onde di piena ce ne sono state più di una e nessuno era in grado di prevedere quante ancora ne sarebbero arrivate. I danni maggiori agli argini, contrariamente a quello che si può imma- ginare, derivano proprio dall’alternarsi della pres- sione esercitata dall’acqua: quando la piena spinge
contro le pareti degli argini la terra tiene, ma poi frana quando è passata, viene portata via dal flusso e l’argine si assottiglia.
Tutto in realtà dipende dalle condizioni atmosferiche generali, non solo dalla pioggia e dal cattivo tempo in montagna, ma soprattutto dalle con- dizioni meteo che si registrano seicento chilometri più a valle. Se nell’Adriatico settentrionale soffia scirocco, a parità di altezza della piena, i sei rami del Delta del Po faticano a far defluire la grande quantità d’acqua: il fiume si gonfia di più e il rischio si moltiplica. Se invece il vento gira a tramontana o maestrale, la foce è in grado di lasciar passare grandi masse d’acqua senza troppi danni. Stando sulla riva del fiume, a sessanta chilometri dal mare, si può capire dalla velocità della corrente, che vento tira sul mare. In quei giorni, per fortuna, il vento soffiava da nord e la corrente si manteneva velocissima. Ma sarebbe bastato il passaggio di una perturbazione a cambiare tutto in poche ore. E l’emergenza della piena quella volta durò un’intera settimana.
I primi giorni ascoltavo i telegiornali che parlava- no di una forte crescita del livello del Po nelle zone di Parma e Reggio e dei provvedimenti di apertura dei bacini golenali decisi dal Magistrato del Po per contenere le acque della piena. La mattina e la sera passavo sull’argine, che è a quattro chilometri dal centro della città, per dare un’occhiata e parlare con quelli che stavano sulla riva. L’acqua arrivava a
un paio di metri sotto il ponte della strada statale n. 16, ma era molto più vicina al vecchio ponte in acciaio della ferrovia, che è più basso. La Protezione civile ci teneva informati costantemente: la situazione sembrava piuttosto difficile, ma sotto controllo. I vecchi sull’argine mi dicevano guardando l’acqua: “Sta già calando.”
Una mattina, durante una riunione in Regione a Bologna con altri amministratori, mi sono accorto dalle domande che mi facevano che erano più allarmati di quanto non lo fossi io. Mi chiesero di aggiornarli e riferii i rapporti della Protezione civile: monitoraggio continuo, l’onda di piena sarebbe passata in un paio di giorni, senza creare problemi gravi. Il presidente della Regione stava pensando di venire in città da noi a vedere di persona, perché era già stato a Parma e a Reggio e la situazione era “estremamente preoccupante”. Pensai che forse a Parma e Reggio erano meno abituati di noi alle piene del Po. Al presidente Errani risultava anche che il prefetto stesse convocando il Comitato provincia- le per la sicurezza per le prime ore del pomeriggio di quello stesso giorno. Mi confermai nell’impres- sione che stessero circolando valutazioni diverse da quelle della Protezione civile. Sarei comunque ritornato immediatamente in città dove avrei raccolto le rilevazioni più aggiornate.
In città, il prefetto mi informò che stava per ar- rivare, di lì a poco, il responsabile nazionale della Protezione civile perché il ministro dell’interno era “estremamente preoccupato” e bisognava decidere cosa fare. Chiamai la Protezione civile locale che mi fece un quadro molto più incerto del precedente. Feci qualche telefonata a Roma ai nostri parlamentari e venni a sapere che il ministro Bianco aveva firmato un decreto che autorizzava l’esercito a minare il ponte sulla ferrovia per quella sera stessa e che il Genio militare era pronto a far saltare l’intero ponte se l’onda di piena fosse arrivata a toccarne le strutture metalliche. La notizia mi colse di sorpresa e mi parve una grossa stupidaggine dalle conseguenze inimmaginabili. Il ponte è sulla linea ferroviaria Roma-Venezia: per non dire tra l’Italia e l’Europa dell’Est. In Italia per costruire un ponte ferroviario nuovo ci vogliono, tra progettazione e realizzazione, almeno tre anni, se tutto va bene. Inoltre il ponte è lungo 350 metri, interamente di acciaio, e pesa qualche migliaio di tonnellate. L’ipotesi di farlo saltare senza creare danni maggiori mi sembrava molto azzardata, quasi un non senso. Come poteva un ministro dell’interno decidere una cosa così grave senza interpellare le istituzioni locali? Forse gli bastava aver informato il prefetto e la Regione... ecco perché il presidente era così preoccupato: forse conosceva le decisioni del ministro dell’interno. E per lo stesso motivo la Protezione civile aveva cambiato atteggiamento in poche ore. Ero sconcertato e mi sentivo tagliato fuori. Credevo che il parere di un Comune potesse contare qualcosa almeno a Bologna in Regione, se non a Roma. Invece nessuno aveva interpellato i miei tecnici o l’ingegnere capo; e nemmeno mi avevano informato direttamente. Il ministro Bianco era stato sindaco di una città importante, ma evidentemente, da Roma, si era dimenticato delle autorità locali.
Arrivato in prefettura mi sono accorto con disappunto che c’erano già un centinaio di persone, forse più, in attesa del responsabile nazionale della Protezione civile per decidere il da farsi. Poco dopo è arrivato il presidente della Regione. Gli ho espresso i dubbi miei e dei miei dirigenti: far saltare il ponte era un’idiozia anche tecnica, perché l’enorme struttura metallica sarebbe ricaduta nell’acqua producendo davvero l’effetto diga che tutti volevano evitare. Lui ha cercato di rassicurarmi dicendo che il Genio militare avrebbe saputo mandare il ponte in frantumi. Ma non era un’ipotesi credibile. È seguito un colloquio teso in cui ho spiegato che non avrei firmato l’ordinanza di evacuazione degli abitanti di Pontelagoscuro (il quartiere della città più vicino al Po). Il presidente sosteneva che non avrei potuto non firmare se me lo avesse chiesto il prefetto. Io sono rimasto della mia opinione: po- teva firmare il prefetto, se era così sicuro di quello che stava facendo. Mi ripetevo: “Un sindaco deve rappresentare i suoi cittadini, specie nelle emergenze. Un sindaco non prende ordini né dal presidente della Regione né dal prefetto.” Ma era un azzardo perché, se ci fossero stati danni alle persone, la re-
sponsabilità sarebbe stata solo mia. Con il presidente ci siamo lasciati così, con reciproca diffidenza. Fino a che il prefetto ha avviato la riunione in attesa dell’arrivo del responsabile della Protezione civile il cui elicottero era in ritardo. Ci siamo seduti: tecnici, politici, rappresentanti delle forze di polizia, vigili del fuoco, vigili urbani, Protezione civile, volontari, magistrato del Po, sindaci, presidenti della Provincia e della Regione, tutti attorno a un tavolo. Ciascuno con una sua idea e una sua competenza parziale. Senza che si capisse chi aveva il potere di decidere. Troppi per prendere decisioni difficili.
Non ho niente contro le riunioni numerose (da sindacalista ne ho fatte centinaia, e burrascose), ma quel pomeriggio, l’improvvisazione, il pressappochismo e l’ansia di protagonismo che vedevo intor- no al tavolo mi parevano insopportabili e pericolosi per i cittadini.
Il rappresentante del Magistrato del Po, che avrebbe dovuto fornire informazioni precise sulla piena, parlava a lungo. Quando l’ho interrotto chiedendo se era in grado di fare una stima precisa sull’altezza dell’onda di piena al ponte della ferrovia, lui ha descritto le strettoie che ci sono nell’alveo e i dislivelli di profondità, per cui l’onda probabilmente si sarebbe alzata nel tratto tra il ponte dell’autostrada e quello della ferrovia ed era possibile che il colmo fosse più alto qui da noi di quello misurato a monte dell’autostrada. “Più alto di quanto?” E lui ha risposto: “Abbiamo due modelli matematici che stanno trattando i dati. Il primo modello dice che la piena arriverà un metro sotto la putrella più bassa del ponte della ferrovia. Dal secondo risulta invece che l’acqua supererà la putrella di un metro e trenta centimetri.” “Se faceva testa o croce era lo stesso e si risparmiava i modelli matematici... è con queste stime che avete deciso di minare il ponte?” ho detto guardando il prefetto e il presidente della Regione. Sarebbe stato più onesto da parte del Magistrato ammettere che non lo sapeva. Invece ha voluto fingere di essere dotato di chissà quali tecnologie, accrescendo la preoccupazione dei presenti e avallando le peggiori ipotesi.
Ho chiesto al prefetto se potevamo vederci un attimo in pochi, che in gergo sindacale si direbbe “fare una ristretta”. Il prefetto ha accettato e ha invitato il presidente della Provincia (il Po corre lungo tutto il territorio provinciale, sul confine del Veneto, per circa cento chilometri), il presidente della Regione, il sindaco della città, e pochissimi altri nella vicina “sala del biliardo”, dove da molti decenni, forse da prima della guerra, c’è un biliardo coperto con un damasco verde, impolverato e consunto, su cui nessuno gioca.
In piedi, appoggiati al biliardo, riprendiamo a scambiarci pareri e opinioni diverse, senza fare passi avanti.
Il Magistrato del Po che non ha informazioni precise, il ministro dell’interno che ha già deciso di
far saltare il ponte, la Protezione civile che cambia parere in poche ore, proprio mentre l’acqua sta ca- lando... Dico al prefetto che non si possono evacuare migliaia di anziani senza la certezza che sia in- dispensabile. Il prefetto teme un conflitto interistituzionale e risponde che non si può non applicare un decreto del ministro. Il presidente della Regione dà ragione al prefetto ma cerca di tener conto an- che delle mie obiezioni: governativo e paternalista insieme.
Mentre siamo lì a rimpallarci gli argomenti e verificare che non ci sono molti spazi di mediazione, si sente bussare alla porta. Nessuno risponde, la porta si apre e si affaccia un signore che dice: “È qui la riunione ristretta delle autorità?” Era il capo del dipartimento delle Ferrovie dello Stato con competenza sul Nord Italia. Il prefetto lo fa entrare. Quel signore, molto gentilmente si informa della situazione e delle posizioni in campo e poi dice: “E se noi fossimo in grado di alzare il ponte di oltre un metro? Voi lo fareste saltare lo stesso?” Per un attimo abbiamo pensato di avere a che fare con un pazzo: ce n’è sempre uno che si intrufola anche nelle situazioni più controllate. Invece lui continua: “Se voi mi autorizzate, faccio venire le squadre speciali con due convogli da Ancona e da Verona. In quattro ore sono qui. A mezzanotte cominciamo a segare i montanti d’acciaio delle campate centrali, inseriamo i martinetti idraulici e solleviamo il ponte. Quando arriva la piena, il ponte è più alto di almeno 70 centimetri. Poi possiamo continuare ad alzarlo, se necessario, fino a 130 centimetri. Passata la piena, togliamo i martinetti e saldiamo di nuovo le strutture. Domani a quest’ora il ponte è già tornato nella sua sede e possiamo far passare di nuovo i treni. Come si fa, signor prefetto, a far saltare un ponte così bello?” Tutti restiamo, increduli, in silenzio. L’uomo delle Ferrovie si avvicina, mi sorride e sussurra: “È lei il sindaco? Le porto i saluti di Mauro Moretti, il mio capo.” Allora sorrido anche io, finalmente. Moretti, uno dei massimi dirigenti delle Ferrovie italiane, conosciuto quando anche lui lavorava nel sindacato, è un ingegnere molto professionale: spigoloso ma affidabile.
Dopo qualche domanda tecnica cui l’ingegnere risponde in maniera impeccabile, il prefetto prende atto che c’è una novità importante e dice che bisogna parlarne al responsabile della Protezione civile, appena arriva. Il presidente della Regione fa capire che lui è sempre stato contro l’idea di far saltare il ponte ed è favorevole al sollevamento con i martinetti (senza evacuazione degli abitanti di Ponte- lagoscuro). La riunione ristretta si scioglie. Io corro a telefonare agli assessori e ai dirigenti, riuniti in permanenza nel mio ufficio, per avvertirli della novità ma decidiamo di tenere comunque allertati i volontari per eventuali ricoveri notturni. Intanto arriva il responsabile della Protezione civile con il decreto per far saltare il ponte. Non saluta nessuno. Il presidente della Regione lo prende sotto braccio e lo porta in una stanzetta con il prefetto. Mi lasciano fuori: mi pare non sia istituzionalmente corretto. Ne approfitto per parlare con l’ingegnere delle Ferrovie. “È sicuro di fare in tempo? Perché quelli del Magistrato del Po non sanno assolutamente a che ora arriva la piena e neppure quanto sarà alta.” “Se mi fanno partire subito, sì. E poi, sindaco, non c’è mica bisogno che lo tiriamo davvero su di un metro questo ponte, no? Basta far vedere che lo solleviamo...” Gli rispondo che invece lo dobbiamo proprio alzare di un metro perché se succederà qualcosa di storto ci andremo di mezzo noi. Mi preoccupo che abbia davvero gli uomini per fare un lavoro così complicato. “Ce li ho, stia tranquillo: so come vanno queste cose e i convogli li ho già fatti partire per guadagnare tempo, saranno qui fra un paio d’ore.”
Quando escono dall’ufficio in cui si sono rinchiusi, il responsabile della Protezione civile ha un’aria strana, quasi corrucciata. Spiega che dal ministero dell’interno avevano chiamato quella mattina le Ferrovie per capire se si poteva fare qualcosa e gli avevano detto che non si poteva far niente. L’ingegnere gli risponde che forse non avevano parlato con la persona giusta e che lui aveva ricevu- to disposizioni precise dall’ingegner Moretti. Alla fine il responsabile della Protezione civile dà il suo consenso al sollevamento del ponte e riparte con il decreto del ministro che gli sbuca dalla tasca. Ho evitato di salutarlo. Mi sembrava inconcepibile! A Roma chiamano al telefono le Ferrovie, parlano con la persona sbagliata e il ministro dell’interno decide di far saltare un ponte ferroviario con la dinamite... E in ogni caso, la Protezione civile dovrebbe avere l’obbligo di concordare le decisioni con le realtà locali, o almeno di confrontarsi prima di decidere: non può avere un potere extraterritoriale assoluto. Altrimenti rischia di commettere errori grossolani.
Poi l’assembramento si scioglie e l’ingegnere delle Ferrovie si attiva. Io vado alla televisione locale a informare che il pericolo sussisteva ancora ma che non avremmo evacuato nessuno e che eravamo in attesa di personale specializzato delle Ferrovie per tentare di fronteggiare la piena senza far saltare nulla. In tarda serata ho visitato le strutture di emergenza e ricovero che erano state approntate dai volontari ringraziandoli di quei giorni di lavoro senza sosta.
Erano ormai le undici di sera quando sono andato con mia moglie Eileen a vedere cosa stava succedendo sul ponte della ferrovia. L’argine era gremito. Ci siamo incamminati sull’erba in mezzo alla gente per raggiungere i binari, passando vicino alle sagome scure di vecchi silos. Le fotoelettriche illuminavano a giorno solo il ponte. Molti giornalisti, molte televisioni: la polizia che teneva lontani i curiosi. Sul ponte squadre di operai stavano effettivamente segando i montanti delle grandi campate per potervi infilare sotto grossi martinetti e alzarle. Incrociamo l’ingegnere delle Ferrovie, preoccupato ma contento del lavoro che stavano facendo. E ne aveva motivo perché i suoi uomini erano all’opera da ore in condizioni rischiose, immersi nella corrente fino alla cintola. Ogni volta che l’acqua trascinava sotto il ponte il relitto di un albero, tutta la struttura metallica cominciava a vibrare sinistramente e a me veniva in mente l’episodio della Chiave a stella in cui il ponte d’acciaio appena costruito inizia a oscillare sempre più fino a distruggersi completamente.
Verso le due del mattino, messi i martinetti, il ponte ha cominciato a sollevarsi nella parte centrale del fiume. L’ingegnere si è avvicinato porgendomi il telefonino: “È il mio capo, vuole parlarle.” “Certo che vi stiamo facendo un bel favore!” mi ha detto Moretti, e io, di rimando: “Certo che vi stiamo fa- cendo una bella pubblicità! Chi parlerà male delle Ferrovie italiane d’ora in poi?” E infatti l’opera- zione di sollevamento del ponte è stata ripresa da molte televisioni europee e americane e l’ingegnere delle Ferrovie (che si chiamava Bianco, come il ministro) ha ricevuto un premio dal presidente Ciam- pi per quest’operazione straordinaria. Oltre alla nostra riconoscenza.
Alcuni giorni dopo, quando abbiamo sorvolato il corso del Po fino al mare su un elicottero dell’Ae- ronautica militare della base di Poggiorenatico, ci siamo accorti con tutta evidenza che l’argine veneto del fiume è ovunque più basso di almeno un metro di quello emiliano. Si vedeva benissimo perché il livello dell’acqua di là scorreva accanto al bordo del terrapieno e di qua da noi, invece, ben al di sotto. Non mi risulta che la situazione sia cambiata negli ultimi dieci anni. La settimana successiva il ministro dell’interno Bianco è venuto a incontrare le istituzioni per fare un bilancio della vicenda. Quando ho detto che non si poteva far sempre affidamento sulla velocità della corrente, che bisognava lavorare subito per prevenire nuove emergenze – scavare il fiume, specie alla foce, pareggiare gli argini, alzare i ponti troppo bassi e non bombardare quelli che ci sono –, il ministro ha finto di non capire, o forse non ha ascoltato.

sabato 15 novembre 2014

Qualche considerazione sulle risposte di Marcella Zappaterra alle mie domande sul PD


Grazie Marcella per aver posto temi di contenuto (che io non avevo affrontato) e che meritano senz'altro un approfondimento. E grazie per aver voluto rispondermi.


Il Paese è certamente fermo da 20 anni ed è necessario sbloccarlo. Penso che sia utile uno sforzo nazionale comune e per questo non capisco come Renzi e la maggioranza del PD invece che costruire un percorso di convergenza tra politica e società, istituzioni e soggetti economici, imprese e sindacati, giochi preferibilmente il terreno della separazione e della contrapposizione. Non lo capisco e non mi piace. Poi, molte delle cose che dici sono vere: le resistenze difensive, la necessità di innovare, le tentazioni corporative di qualche categoria sindacale… Ma non si può dire (a mio parere) che un’organizzazione di 3 milioni di iscritti, più 3 dei pensionati (iscritti, non voti elettorali) sia una corporazione. Su questo non riesco proprio a convenire: la Cgil è un sindacato generale (lo è sempre stato) a “vocazione maggioritaria” direste voi: abbiamo al nostro interno operai, impiegati, quadri, precari,… immigrati, ecc.  Lo dice la nostra storia, prima di tutto. Che la Cgil sia un sindacato che vuole lo scontro per lo scontro è una caricatura…Davvero il problema è quello di superare la cultura del conflitto? io credo che il problema sia quello di come si ricompongono le diversità di interessi, non di fingere che il mondo del lavoro sia un tutt'uno omogeneo. Ci sono anche in ogni famiglia conflitti da aspettative e interessi diversi... il punto è risolverli in maniera armonica. Se il modello è la Germania pronti a ragionare. Ma non è vero che l'art. 18 che verrà fuori dal Jobs Act è lo stesso che c'è in Germania perché lì il sindacato è chiamato a dare un parere sulla fondatezza delle ragioni di licenziamento: è la prima cosa che il giudice verifica se c'è un ricorso. Lì c'è la mittbestimmung da decenni e qui la Confindustria non vuole nemmeno sentir parlare di partecipazione... Su questo punto se Renzi dedicesse di proporre a Confindustria e sindacati di sperimentare forme regolate di partecipazione (previste dalla Costituzione) farebbe davvero una cosa innovativa. Dubito che la faccia perché spiazzerebbe Confindustria e la cultura italiana dell'imprenditore libero da vincoli. Una delle differenze tra "lib" e "lab": la cultura "lib" non avrebbe certo scritto l'art. 1 e l'art. 4 della costituzione. Tantomeno il 46.

Certo, c’è un problema di rappresentanza da rinnovare a partire dai luoghi di lavoro. Certo, la frammentazione del mercato del lavoro (magari fosse duale tra garantiti e non garantiti!!! Anche questa è una caricatura) ha indebolito la capacità di rappresentare attraverso la contrattazione. E otto anni di crisi hanno indebolito anche la contrattazione per quelli che il lavoro ce l’hanno o ce l’avevano. Certo è necessario un rinnovamento del sindacato (e della Cgil), anche una verifica delle tessere e dei voti; ma non una sua emarginazione come rappresentante di interessi collettivi. Al contrario: proprio di fronte alla crisi andrebbero chiamati (se non dal Governo da chi?) tutti i soggetti sociali e proposti loro obiettivi da condividere e richiesti loro comportamenti coerenti e comuni da assumere. Come fece Ciampi. Tutte le organizzazioni economiche e sociali, non solo Confindustria e le altre associazioni di imprese (come fa Renzi). La presa di distanza dalla Cgil a prescindere non la capisco (a meno che non abbia ragione Cacciari e che cioè sia una scelta politica lucida per spostare l’asse del PD fuori dal mondo laburista). Ma allora io che c’entro con questo PD? (Paolo dice: aspetta che cambi la maggioranza nel PD del dopo Renzi. Ma io sono un funzionario della Cgil, ho una certa età, e vado in barca a vela: non posso fermarmi ad aspettare che cambi il vento... la Cgil non è paragonabile a una minoranza PD, per cultura, peso, storia).

Attenzione anche alla concertazione. In una prima fase (prima metà anni ’90) ha salvato il paese dalla bancarotta. Negli anni successivi forse ha determinato una rendita: il famoso diritto di veto… Ma la concertazione è stata abolita in forma scritta nel 2001, dal Governo Berlusconi e da Sacconi con il famoso Linro Bianco. Renzi ha "cancellato" una cosa che non c’era più da 12 anni… (del resto, gli ho sentito dire che era orgoglioso di aver pedonalizzato lui Piazza della Signoria e so che è abituato a spararne di grosse). La verità è un'altra. Negli anni 2000 Berlusconi ha cercato di dividere il sindacato e di marginalizzare dal confronto politico e dalla contrattazione (i famosi accordi separati sottoscritti dal Governo) la Cgil. Arriva un Governo PD e cosa dice? che se la Cgil vuole incidere sulle decisioni della politica deve far eleggere qualcuno in Parlamento? Non credo sia solo un problema di ignoranza…

Da giovane mi è capitato di finire al Ministero del Lavoro quando c’era Donat Cattin, in vertenze complicate. Davvero, Marcella, non avrebbe mai usato verso il sindacato le parole che usa Renzi. E non perché difendeva le corporazioni ma perché la cultura del lavoro cattolica (quella solida) poteva anche non condividerne le politiche ma non negava la funzione dei corpi sociali intermedi. Aveva un'idea ricca della democrazia e della politica! Qui torniamo alla trasformazione della forma partito che è in atto e di cui ho chiacchierato già con Paolo. È la forma populista della democrazia e del partito che non tollera corpi intermedi che si collocano tra leader ed elettori. Non c’entrano le “corporazioni”. Tra l’altro, ti prego di credere Marcella, che Renzi le lobby le ascolta eccome, a cominciare da quelle di Confindustria…

Se devo fare una sintesi, io la vedo così: dopo le primarie vinte da Renzi non c’è più un partito di massa con una matrice culturale laburista oggi in Italia (ed è la prima volta che accade dalla caduta del fascismo); il leader PD (nonché capo del Governo) prende le distanze da quella cultura ad ogni occasione per raccogliere consensi a destra (come dice Cacciari); il PD si sta trasformando in un comitato elettorale del leader e il Parlamento in un luogo in cui si approvano le scelte del Governo (sostenute e sollecitate dal Presidente della Repubblica). Non sono trasformazioni (reali e costituzionali) da poco. E non sono innovazioni che mi piacciano. Non riesco infatti a capire perché il PD debba indurre qualche milione di persone che ci hanno creduto a non votarlo più…

Pensa, Marcella, che quando Renzi dice che l’emergenza in Italia sono la “crescita e il lavoro” dice quello che la Cgil ha sostenuto contro il Governo Monti 2 anni fa. Ma persino Monti dedicava un minuto del suo tempo a discutere con i sindacati e non li demonizzava o li ridicolizzava.
La cosa che mi infastidisce e preoccupa è che sindacato, PD e Governo pensano la stessa cosa e non riescono (a Roma) a concordare uno straccio di strategia comune… Spero che a Ferrara e in Emilia le cose siano diverse.
Poi, i contenuti delle leggi, le cosiddette riforme, si discutono e spesso ci sono pezzi che vanno bene e pezzi che non vanno bene a ciascuno di noi. Non è questo il punto.

Scusami dello sfogo ma non sopporto che qualcuno disperda consapevolmente, per il suo solo tornaconto personale, il patrimonio culturale e politico "di famiglia".
Un abbraccio e buon lavoro,
Gaetano


Qualche commento alle risposte di Paolo Calvano in attesa di una discussione vera tra PD e CGIL (almeno a Ferrara, almeno in Emilia, se non a Roma... prima che sia tardi)



 
1.     Non è problema di pensiero unico, è problema di leader unico e di forma partito che il leader unico oggi propone o impone (come tu stesso accenni alla fine). Se il leader di centro destra e quello di centro sinistra (come io credo) praticano un modello populista della politica (il leader e il popolo, senza mediatori) i due partiti si assomiglieranno sempre più nella forma dei comitati elettorali. Tra una elezione e l’altra il partito ha funzione di sostegno e gran cassa in cui conta solo il parere di maggioranza. Voglio dire: non c’è discussione che costruisce una proposta, c’è la proposta del leader e la conta. Non perdo tempo a dire quanto questo modello sia positivo (perché fa guadagnare voti trasversali) o negativo (perché affida tutto alle capacità di una persona e azzera l circolazione di idee e proposte). Mi limito a ricavarne una conseguenza che mi tocca anche personalmente come cittadino elettore. Se, come io credo, il partito non è più una collettività cui si appartiene perché se ne condividono i valori fondanti e il programma fondamentale, allora lo si vota solo a due condizioni: che ci si fidi della figura del leader di turno (qualche volta indipendentemente dalle stesse opinioni e parole), o che ci si affidi al suo programma perché ci convince. Se, come nel mio caso, c’è diffidenza nei confronti del leader che considero un bravissimo venditore di se stesso molto indifferente ai contenuti e alle parole che usa nella comunicazione (purché siano efficaci) e non si condivide il suo programma liberista-populista, nasce un problema per me inedito. Venendo meno il senso di appartenenza (anche per le maggioranze vaiabili di cui parli tu, Paolo, tra lib e lab) e non condividendo il programma, per la prima volta nella mia vita non riesco a  votare il partito di cui pure ho la tessera. Ti prego di credere che questo mi produce qualche problema di coscienza, ma non riesco a sacrificare la coerenza alla coscienza (la razionalità all’emotività).

2.     Sul sindacato, è ovvio che ci sono tendenze innovative e conservatrici nel comportamento sindacale, da sempre. È ovvio che spesso giochiamo solo e troppo in difesa. Ma, lasciami dire, non si può irridere il sindacato di Di Vittorio, Lama, Trentin e Guido Rossa per il ruolo che ha avuto nel progresso civile e democratico di questo Paese. (Così come non può l’ultima arrivata dire che preferisce Fanfani a Berlinguer perché lei è di Arezzo…). Il problema però non è che il leader (eletto?) deve poter decidere, ci mancherebbe… e nessuno vuole esercitare il diritto di veto. Il problema è che persino con Monti e Letta c’erano contatti quotidiani (per capirsi o magari dissentire su questo o quel punto) che oggi non ci sono con il Governo e il Partito di Renzi.  Questa la considero una debolezza del “giovane leader” non come lui vuol far credere una sua forza. E considero sbagliato anche sul piano economico pensare che si possa avviare la crescita in un clima di contrapposizione sociale. Spero che in Emilia il dialogo col sindacato continui e che qualcuno ne spieghi i vantaggi al leader nazionale.

3.     Sul tema del lavoro un’ultima breve considerazione. Tutti lavorano e tutti siamo uguali e degni di rispetto, certo. Ma, attenzione: non siamo uguali per diritti, per condizioni di vita, per come ci trattano in banca, per trattamenti pensionistici, per quanto paghiamo o non paghiamo di fisco, per quanto siamo scolarizzati, per quante aspettative possano avere i figli di un cassintegrato e quelli di un imprenditore. Quindi non appiccichiamo anche un’ideologia egualitaria debole a un partito che sta già rinunciando alla militanza (come tu giustamente dici). Tutti appartengono al mondo del lavoro (imprenditori e lavoratori dipendenti) ma le loro condizioni e i loro diritti vanno tutelati in maniera differenzata altrimenti al populismo si aggiunge anche la demagogia. E poi, non fingiamo di non vedere che il “caro leader” incontra molto spesso imprese e Confindustria, molto più spesso (infinitamente più spesso) di quanto non incontri i vertici sindacali. Fa bene a incontrare le imprese intendiamoci, fa male a non incontrare i sindacati perché potrebbe capire un po’ meglio cosa sia il lavoro (e l’assenza di lavoro) e questo farebbe bene al Paese.