Alcuni amici mi chiedono
come sia andata la storia della piena del Po del 2000 e di quell'idea
assurda di far saltare il ponte ferroviario con la dinamite. Così ho
pensato di postare sul blog il capitolo sulla piena del mio libro "Mente
Locale". Buona lettura.
3 L’antico fiume
La prima emergenza reale nella
quale mi sono imbattuto, da sindaco ancora apprendista, è stata la piena del
Po nell’ottobre 2000. Il Po, come di- cono i sussidiari, nasce dal Monviso e
sfocia, dopo 652 chilometri, nel mare Adriatico. Non dicono che in origine era
un fiume che scorreva a livello della campagna e della mia città, inondandola
con le sue acque almeno una volta l’anno (come il Nilo) e che nei secoli, a
forza di alzare argini per contenerlo, è diventato un fiume pensile, anche
perché nessuno lo scava più. Non tracima tutte le volte che piove o quando si
sciolgono le nevi delle Alpi, però quando esonda lo fa cadendo dall’alto, da
molti metri sopra il livello della mia città. Sul Padimetro inciso su una
colonna di marmo del palazzo municipale sono segnate tutte le piene storiche e
solo a guardarlo si capisce che il livello medio dell’acqua si è alzato
costantemente nei secoli.
Le onde di piena più pericolose
avvengono con le piogge primaverili che si sommano allo sciogli- mento delle
nevi in montagna, ma anche quelle autunnali non scherzano. I vecchi ancora
parlano delle piene più brutte e della famosa rotta del 1951, quando l’acqua
ha invaso la campagna veneta fino alle porte di Rovigo. Raccontano storie più
o meno veritiere sulle ronde armate che vigilavano tutta la notte su entrambi
gli argini, per evitare che qual- cuno con un barchino e dei picconi,
attraversasse il fiume per aprire un varco nell’argine opposto e salvare la
propria casa, la famiglia, le bestie a scapi- to di chi viveva dall’altra parte
del fiume. Rompere quell’enorme massa di terra, più alta e larga delle mura
cittadine, sembra difficile, ma quando l’onda della piena preme sulle sponde
basterebbe scavare un piccolo fosso o allargare una delle tante infiltrazioni
(i fontanazzi) che si creano da sole sotto l’argine e che sbucano nel terreno
come polle qualche decina di metri più dietro, per far smottare tutto in poche
ore.
Mio nonno raccontava anche
dell’aspetto buono del fiume. Quando si andava a fare il bagno sulle spiagge di
sabbia dorata e si passava una domenica sotto i salici piangenti, che secondo
la mitologia sa- rebbero le sorelle di Fetonte affrante per la morte del
fratello fulminato da Giove mentre sorvolava l’Eridano con il carro del sole.
Ai tempi di mio nonno, si lanciavano le sfide tra i giovani più coraggiosi: a chi riusciva ad
attraversare il fiume a nuoto. Allora si pescava lo storione e si trovava
ancora il caviale del Po. Lui raccontava di quando d’estate, con il fiume in
secca, si riusciva ad andare a piedi fino all’altra riva, perché il Po è in
realtà un gigantesco torrente che a volte si svuota quasi del tutto. Poi
tornava a parlare della faccia più traditrice del fiume, con le buche
nascoste e i vortici e i tanti annegamenti. E di quando, nel gelido inverno
del 1929, si riusciva ad attraversarlo per intero camminando sul ghiaccio.
Adesso nel Po non ci sono più
gli storioni: le sabbie sono di colore grigio scuro, sporche di idro- carburi,
e l’acqua per essere bevuta deve essere filtrata e depurata a lungo dalle
aziende idriche municipali. Nessuno va più a farci il bagno e in oltre
cinquanta anni non ho mai visto galleggiare un solo pezzo di ghiaccio. Il Po
negli ultimi decenni è diventato un’enorme cloaca che scarica in mare i reflui
di tutte le città della Pianura padana, a co- minciare da Milano che non aveva
nemmeno un depuratore fino al 2000 (la Milano “da bere”...). Nel Po finiscono i
residui degli allevamenti di ma- iali della Via Emilia, quelli delle industrie
del Nor- dovest, e le sostanze chimiche di un’agricoltura troppo
industrializzata. I più ottimisti dicono che negli ultimi anni c’è stato un
qualche miglioramen- to della qualità dell’acqua ma non sono in grado di
confermarlo. Dal volo Venezia-Roma, quando l’aereo passa sopra le foci del
Po, si continua a vedere una striscia di acqua gialla che
entra per decine di chilometri nell’azzurro del mare Adriatico.
In quei giorni
dell’ottobre 2000
il Po era soprattutto una gigantesca e spaventosa quantità di acqua
sporca
che passava rumorosa e veloce sotto i ponti: producendo rapide e
mulinelli
attorno ai pilastri, allagando le golene e il sistema di argini plurimi
co-
struito negli anni, premendo sulle rive dove la gente stava seria a
osservare.
Non c’era più niente di bucolico sotto i pioppi e fra i salici immersi
nell’ac- qua fino ai rami. Trascinati dalla corrente galleg- giavano
carcasse
di animali, alberi divelti e detriti vari: bidoni, bombole, frigoriferi.
Ricordo lo sforzo epico delle centinaia di persone della Protezione
civile,
dell’esercito e delle squadre di volontari che rinforzavano le sponde
con
sacchi pieni di sabbia, preparavano programmi di sgombero rapido e
allestivano sedi di ricovero per eventuali sfollati nelle palestre e
nelle
scuole. L’attivismo frenetico dei soccorsi e la prudente rassegnazione
degli
anziani che stavano per ore, con i piedi vicino all’acqua e le braccia
lungo i
fianchi, a guardare se il livello del fiume cresceva ancora o se si era
fermato.
In realtà di onde di piena ce ne
sono state più di una e nessuno era in grado di prevedere quante ancora ne
sarebbero arrivate. I danni maggiori agli argini, contrariamente a quello che
si può imma- ginare, derivano proprio dall’alternarsi della pres- sione
esercitata dall’acqua: quando la piena spinge
contro le pareti degli argini la
terra tiene, ma poi frana quando è passata, viene portata via dal flusso e
l’argine si assottiglia.
Tutto in realtà dipende dalle
condizioni atmosferiche generali, non solo dalla pioggia e dal cattivo
tempo in montagna, ma soprattutto dalle con- dizioni meteo che si registrano
seicento chilometri più a valle. Se nell’Adriatico settentrionale soffia
scirocco, a parità di altezza della piena, i sei rami del Delta del Po
faticano a far defluire la grande quantità d’acqua: il fiume si gonfia di più
e il rischio si moltiplica. Se invece il vento gira a tramontana o maestrale,
la foce è in grado di lasciar passare grandi masse d’acqua senza troppi danni.
Stando sulla riva del fiume, a sessanta chilometri dal mare, si può capire
dalla velocità della corrente, che vento tira sul mare. In quei giorni, per
fortuna, il vento soffiava da nord e la corrente si manteneva velocissima. Ma
sarebbe bastato il passaggio di una perturbazione a cambiare tutto in poche ore.
E l’emergenza della piena quella volta durò un’intera settimana.
I primi giorni ascoltavo i
telegiornali che parlava- no di una forte crescita del livello del Po nelle
zone di Parma e Reggio e dei provvedimenti di apertura dei bacini golenali
decisi dal Magistrato del Po per contenere le acque della piena. La mattina e la
sera passavo sull’argine, che è a quattro chilometri dal centro della città,
per dare un’occhiata e parlare con quelli che stavano sulla riva. L’acqua
arrivava a
un paio di metri sotto il
ponte
della strada statale n. 16, ma era molto più vicina al vecchio ponte in
acciaio della ferrovia, che è più basso. La Protezione civile ci
teneva
informati costantemente: la situazione sembrava piuttosto difficile, ma
sotto
controllo. I vecchi sull’argine mi dicevano guardando l’acqua: “Sta già
calando.”
Una mattina, durante una riunione
in Regione a Bologna con altri amministratori, mi sono accorto dalle domande
che mi facevano che erano più allarmati di quanto non lo fossi io. Mi chiesero
di aggiornarli e riferii i rapporti della Protezione civile: monitoraggio
continuo, l’onda di piena sarebbe passata in un paio di giorni, senza creare
problemi gravi. Il presidente della Regione stava pensando di venire in città
da noi a vedere di persona, perché era già stato a Parma e a Reggio e la
situazione era “estremamente preoccupante”. Pensai che forse a Parma e Reggio
erano meno abituati di noi alle piene del Po. Al presidente Errani risultava
anche che il prefetto stesse convocando il Comitato provincia- le per la
sicurezza per le prime ore del pomeriggio di quello stesso giorno. Mi confermai
nell’impres- sione che stessero circolando valutazioni diverse da quelle della
Protezione civile. Sarei comunque ritornato immediatamente in città dove avrei
raccolto le rilevazioni più aggiornate.
In città, il prefetto mi
informò che stava per ar- rivare, di lì a poco, il responsabile nazionale
della Protezione civile perché il ministro dell’interno era “estremamente preoccupato”
e
bisognava decidere cosa fare. Chiamai la Protezione civile locale che mi
fece
un quadro molto più incerto del precedente. Feci qualche telefonata a
Roma ai
nostri parlamentari e venni a sapere che il ministro Bianco aveva
firmato un
decreto che autorizzava l’esercito a minare il ponte sulla ferrovia per
quella sera stessa e che il Genio militare era pronto a far saltare
l’intero
ponte se l’onda di piena fosse arrivata a toccarne le strutture
metalliche.
La notizia mi colse di sorpresa e mi parve una grossa stupidaggine dalle
conseguenze inimmaginabili. Il ponte è sulla linea ferroviaria
Roma-Venezia:
per non dire tra l’Italia e l’Europa dell’Est. In Italia per costruire
un ponte ferroviario nuovo ci vogliono, tra progettazione e
realizzazione, almeno tre
anni, se tutto va bene. Inoltre il ponte è lungo 350 metri, interamente
di
acciaio, e pesa qualche migliaio di tonnellate. L’ipotesi di farlo
saltare
senza creare danni maggiori mi sembrava molto azzardata, quasi un non
senso.
Come poteva un ministro dell’interno decidere una cosa così grave senza
interpellare le istituzioni locali? Forse gli bastava aver informato il
prefetto e la Regione... ecco perché il presidente era così
preoccupato:
forse conosceva le decisioni del ministro dell’interno. E per lo stesso
motivo
la Protezione civile aveva cambiato atteggiamento in poche ore. Ero
sconcertato
e mi sentivo tagliato fuori. Credevo che il parere di un Comune potesse
contare
qualcosa almeno a Bologna in Regione, se non a Roma. Invece nessuno aveva interpellato
i miei tecnici o l’ingegnere capo; e nemmeno mi avevano informato
direttamente. Il ministro Bianco era stato sindaco di una città importante,
ma evidentemente, da Roma, si era dimenticato delle autorità locali.
Arrivato in prefettura mi sono
accorto con disappunto che c’erano già un centinaio di persone, forse più,
in attesa del responsabile nazionale della Protezione civile per decidere il
da farsi. Poco dopo è arrivato il presidente della Regione. Gli ho espresso i
dubbi miei e dei miei dirigenti: far saltare il ponte era un’idiozia anche
tecnica, perché l’enorme struttura metallica sarebbe ricaduta nell’acqua
producendo davvero l’effetto diga che tutti volevano evitare. Lui ha cercato
di rassicurarmi dicendo che il Genio militare avrebbe saputo mandare il ponte
in frantumi. Ma non era un’ipotesi credibile. È seguito un colloquio teso in
cui ho spiegato che non avrei firmato l’ordinanza di evacuazione degli abitanti
di Pontelagoscuro (il quartiere della città più vicino al Po). Il presidente
sosteneva che non avrei potuto non firmare se me lo avesse chiesto il prefetto.
Io sono rimasto della mia opinione: po- teva firmare il prefetto, se era così
sicuro di quello che stava facendo. Mi ripetevo: “Un sindaco deve rappresentare
i suoi cittadini, specie nelle emergenze. Un sindaco non prende ordini né
dal presidente della Regione né dal prefetto.” Ma era un azzardo perché, se
ci fossero stati danni alle persone, la re-
sponsabilità sarebbe stata solo
mia. Con il presidente ci siamo lasciati così, con reciproca diffidenza.
Fino a che il prefetto ha avviato la riunione in attesa dell’arrivo del
responsabile della Protezione civile il cui elicottero era in ritardo. Ci siamo
seduti: tecnici, politici, rappresentanti delle forze di polizia, vigili del
fuoco, vigili urbani, Protezione civile, volontari, magistrato del Po,
sindaci, presidenti della Provincia e della Regione, tutti attorno a un tavolo.
Ciascuno con una sua idea e una sua competenza parziale. Senza che si capisse
chi aveva il potere di decidere. Troppi per prendere decisioni difficili.
Non ho niente contro le riunioni
numerose (da sindacalista ne ho fatte centinaia, e burrascose), ma quel
pomeriggio, l’improvvisazione, il pressappochismo e l’ansia di protagonismo
che vedevo intor- no al tavolo mi parevano insopportabili e pericolosi per i
cittadini.
Il rappresentante del Magistrato
del Po, che avrebbe dovuto fornire informazioni precise sulla piena, parlava
a lungo. Quando l’ho interrotto chiedendo se era in grado di fare una stima
precisa sull’altezza dell’onda di piena al ponte della ferrovia, lui ha
descritto le strettoie che ci sono nell’alveo e i dislivelli di profondità,
per cui l’onda probabilmente si sarebbe alzata nel tratto tra il ponte
dell’autostrada e quello della ferrovia ed era possibile che il colmo fosse
più alto qui da noi di quello misurato a monte dell’autostrada. “Più alto di
quanto?” E lui ha risposto: “Abbiamo due modelli matematici che stanno trattando i
dati. Il
primo modello dice che la piena arriverà un metro sotto la putrella
più bassa
del ponte della ferrovia. Dal secondo risulta invece che l’acqua
supererà la
putrella di un metro e trenta centimetri.” “Se faceva testa o croce era
lo
stesso e si risparmiava i modelli matematici... è con queste stime che
avete
deciso di minare il ponte?” ho detto guardando il prefetto e il
presidente della Regione. Sarebbe stato più onesto da parte del
Magistrato ammettere che non
lo sapeva. Invece ha voluto fingere di essere dotato di chissà quali
tecnologie, accrescendo la preoccupazione dei presenti e avallando le
peggiori
ipotesi.
Ho chiesto al prefetto se
potevamo vederci un attimo in pochi, che in gergo sindacale si direbbe “fare
una ristretta”. Il prefetto ha accettato e ha invitato il presidente della
Provincia (il Po corre lungo tutto il territorio provinciale, sul confine del
Veneto, per circa cento chilometri), il presidente della Regione, il sindaco
della città, e pochissimi altri nella vicina “sala del biliardo”, dove da
molti decenni, forse da prima della guerra, c’è un biliardo coperto con un
damasco verde, impolverato e consunto, su cui nessuno gioca.
In piedi, appoggiati al biliardo,
riprendiamo a scambiarci pareri e opinioni diverse, senza fare passi avanti.
Il Magistrato del Po che non ha
informazioni precise, il ministro dell’interno che ha già deciso di
far saltare il ponte, la
Protezione civile che cambia parere in poche ore, proprio mentre l’acqua sta
ca- lando... Dico al prefetto che non si possono evacuare migliaia di anziani
senza la certezza che sia in- dispensabile. Il prefetto teme un conflitto
interistituzionale e risponde che non si può non applicare un decreto del
ministro. Il presidente della Regione dà ragione al prefetto ma cerca di tener
conto an- che delle mie obiezioni: governativo e paternalista insieme.
Mentre siamo lì a rimpallarci
gli argomenti e verificare che non ci sono molti spazi di mediazione, si
sente bussare alla porta. Nessuno risponde, la porta si apre e si affaccia un
signore che dice: “È qui la riunione ristretta delle autorità?” Era il capo
del dipartimento delle Ferrovie dello Stato con competenza sul Nord Italia. Il
prefetto lo fa entrare. Quel signore, molto gentilmente si informa della
situazione e delle posizioni in campo e poi dice: “E se noi fossimo in grado di
alzare il ponte di oltre un metro? Voi lo fareste saltare lo stesso?” Per un
attimo abbiamo pensato di avere a che fare con un pazzo: ce n’è sempre uno che
si intrufola anche nelle situazioni più controllate. Invece lui continua: “Se
voi mi autorizzate, faccio venire le squadre speciali con due convogli da
Ancona e da Verona. In quattro ore sono qui. A mezzanotte cominciamo a segare i
montanti d’acciaio delle campate centrali, inseriamo i martinetti idraulici e
solleviamo il ponte. Quando arriva la piena, il ponte è più alto di almeno 70 centimetri. Poi
possiamo continuare ad alzarlo, se necessario, fino a 130 centimetri. Passata
la piena, togliamo i martinetti e saldiamo di nuovo le strutture. Domani a
quest’ora il ponte è già tornato nella sua sede e possiamo far passare di
nuovo i treni. Come si fa, signor prefetto, a far saltare un ponte così
bello?” Tutti restiamo, increduli, in silenzio. L’uomo delle Ferrovie si
avvicina, mi sorride e sussurra: “È lei il sindaco? Le porto i saluti di
Mauro Moretti, il mio capo.” Allora sorrido anche io, finalmente. Moretti, uno
dei massimi dirigenti delle Ferrovie italiane, conosciuto quando anche lui
lavorava nel sindacato, è un ingegnere molto professionale: spigoloso ma
affidabile.
Dopo qualche domanda tecnica cui
l’ingegnere risponde in maniera impeccabile, il prefetto prende atto che c’è
una novità importante e dice che bisogna parlarne al responsabile della
Protezione civile, appena arriva. Il presidente della Regione fa capire che lui
è sempre stato contro l’idea di far saltare il ponte ed è favorevole al
sollevamento con i martinetti (senza evacuazione degli abitanti di Ponte-
lagoscuro). La riunione ristretta si scioglie. Io corro a telefonare agli
assessori e ai dirigenti, riuniti in permanenza nel mio ufficio, per avvertirli
della novità ma decidiamo di tenere comunque allertati i volontari per
eventuali ricoveri notturni. Intanto arriva il responsabile della Protezione
civile con il decreto per far saltare il ponte. Non saluta nessuno. Il presidente della Regione lo
prende sotto braccio e lo porta in una stanzetta con il prefetto. Mi lasciano
fuori: mi pare non sia istituzionalmente corretto. Ne approfitto per parlare
con l’ingegnere delle Ferrovie. “È sicuro di fare in tempo? Perché quelli
del Magistrato del Po non sanno assolutamente a che ora arriva la piena e
neppure quanto sarà alta.” “Se mi fanno partire subito, sì. E poi, sindaco,
non c’è mica bisogno che lo tiriamo davvero su di un metro questo ponte, no?
Basta far vedere che lo solleviamo...” Gli rispondo che invece lo dobbiamo
proprio alzare di un metro perché se succederà qualcosa di storto ci
andremo di mezzo noi. Mi preoccupo che abbia davvero gli uomini per fare un
lavoro così complicato. “Ce li ho, stia tranquillo: so come vanno queste
cose e i convogli li ho già fatti partire per guadagnare tempo, saranno qui
fra un paio d’ore.”
Quando escono dall’ufficio in cui
si sono rinchiusi, il responsabile della Protezione civile ha un’aria strana,
quasi corrucciata. Spiega che dal ministero dell’interno avevano chiamato
quella mattina le Ferrovie per capire se si poteva fare qualcosa e gli
avevano detto che non si poteva far niente. L’ingegnere gli risponde che forse
non avevano parlato con la persona giusta e che lui aveva ricevu- to
disposizioni precise dall’ingegner Moretti. Alla fine il responsabile della
Protezione civile dà il suo consenso al sollevamento del ponte e riparte con
il decreto del ministro che gli sbuca dalla tasca. Ho evitato di salutarlo. Mi
sembrava inconcepibile! A Roma chiamano al telefono le
Ferrovie, parlano con la persona sbagliata e il ministro dell’interno decide di
far saltare un ponte ferroviario con la dinamite... E in ogni caso, la
Protezione civile dovrebbe avere l’obbligo di concordare le decisioni con le
realtà locali, o almeno di confrontarsi prima di decidere: non può avere un
potere extraterritoriale assoluto. Altrimenti rischia di commettere errori
grossolani.
Poi l’assembramento si scioglie e
l’ingegnere delle Ferrovie si attiva. Io vado alla televisione locale a
informare che il pericolo sussisteva ancora ma che non avremmo evacuato nessuno
e che eravamo in attesa di personale specializzato delle Ferrovie per
tentare di fronteggiare la piena senza far saltare nulla. In tarda serata ho visitato
le strutture di emergenza e ricovero che erano state approntate dai volontari
ringraziandoli di quei giorni di lavoro senza sosta.
Erano ormai le undici di sera
quando sono andato con mia moglie Eileen a vedere cosa stava succedendo sul
ponte della ferrovia. L’argine era gremito. Ci siamo incamminati sull’erba in
mezzo alla gente per raggiungere i binari, passando vicino alle sagome scure di
vecchi silos. Le fotoelettriche illuminavano a giorno solo il ponte. Molti
giornalisti, molte televisioni: la polizia che teneva lontani i curiosi. Sul
ponte squadre di operai stavano effettivamente segando i montanti delle
grandi campate per potervi infilare sotto grossi martinetti e alzarle.
Incrociamo l’ingegnere delle Ferrovie, preoccupato ma contento del lavoro che
stavano facendo. E ne aveva motivo perché i suoi uomini erano all’opera da ore
in condizioni rischiose, immersi nella corrente fino alla cintola. Ogni volta
che l’acqua trascinava sotto il ponte il relitto di un albero, tutta la struttura
metallica cominciava a vibrare sinistramente e a me veniva in mente l’episodio
della Chiave a stella in cui il ponte d’acciaio appena costruito inizia
a oscillare sempre più fino a distruggersi completamente.
Verso le due del mattino,
messi i
martinetti, il ponte ha cominciato a sollevarsi nella parte centrale del
fiume.
L’ingegnere si è avvicinato porgendomi il telefonino: “È il mio capo,
vuole
parlarle.” “Certo che vi stiamo facendo un bel favore!” mi ha detto
Moretti, e
io, di rimando: “Certo che vi stiamo fa- cendo una bella pubblicità!
Chi
parlerà male delle Ferrovie italiane d’ora in poi?” E infatti l’opera-
zione
di sollevamento del ponte è stata ripresa da molte televisioni europee e
americane e l’ingegnere delle Ferrovie (che si chiamava Bianco, come il
ministro) ha ricevuto un premio dal presidente Ciam- pi per
quest’operazione
straordinaria. Oltre alla nostra riconoscenza.
Alcuni giorni dopo, quando
abbiamo sorvolato il corso del Po fino al mare su un elicottero dell’Ae-
ronautica militare della base di Poggiorenatico, ci siamo accorti con tutta
evidenza che l’argine veneto del fiume è ovunque più basso di almeno un metro
di quello emiliano. Si vedeva benissimo perché il livello dell’acqua di là
scorreva accanto al bordo del terrapieno e di qua da noi, invece, ben al di
sotto. Non mi risulta che la situazione sia cambiata negli ultimi dieci anni.
La settimana successiva il ministro dell’interno Bianco è venuto a incontrare
le istituzioni per fare un bilancio della vicenda. Quando ho detto che non si
poteva far sempre affidamento sulla velocità della corrente, che bisognava
lavorare subito per prevenire nuove emergenze – scavare il fiume, specie alla
foce, pareggiare gli argini, alzare i ponti troppo bassi e non bombardare quelli
che ci sono –, il ministro ha finto di non capire, o forse non ha ascoltato.